Arts Of The Working Class Logo

Creare Spazi di Alteristituzionalità

Una conversazione con Marco Baravalle su come uscire dal paradigma neoliberale nel sistema dell’arte a partire dall'esperienza di Sale Docks.

  • May 31 2025
  • Giulia Mariachiara Galiano
    è una curatrice indipendente con sede a Venezia. Dal 2023 co-cura e gestisce terzospazio, un project space indipendente gestito dall'associazione culturale zolforosso.

Giulia Mariachiara Galiano: Quello che mi ha avvicinata alla tua ricerca è stata l'affinità che ho percepito rispetto al modo di concepire l'alteristituzionalità e l’arte del comune. Mi interessa molto che parli di movimento piuttosto che di fine e che vedi nella generazione di alteristituzionalità la possibile via d'uscita dallo spazio governamentale del sistema dell'arte. Hai tradotto questo movimento in più esperienze quali il Sale Docks e l'IRI (Institute for radical Imagination). Quale esperienza credi sia riuscita meglio a mantenere la tensione di cui parli?

Marco Baravalle: Per affrontare il tema dell’alteristituzionalità, partirei da Sale Docks. Nato nel 2007 da un’occupazione, si è sviluppato rispondendo a due urgenze: intervenire politicamente sul lavoro culturale a Venezia, e sperimentare uno spazio artistico non-neoliberale. Un esempio della prima vocazione è Biennalocene, un progetto che parte come performance/ investigazione militante e si sviluppa in un’assembela autogestita di lavoratori. La seconda urgenza è quella più propriamente l’alteristituzionale, quella che cerca di istituire nuove forme istituzionali oltre il modello neoliberale. 

In città, negli ultimi vent’anni emergono due modelli istituzionali: da un lato la Biennale resta il principale motore artistico, ma si è progressivamente adeguata alla logica neoliberale, senza tentare di costruire alleanze con soggetti politici subalterni, né di mettere in discussione il proprio legame con il sistema della rendita immobiliare che parassita l’arte. Dall’altro lato, si è ampliata la presenza di fondazioni legate a capitali multinazioanali privati. Il modello avviato da François Pinault ha aperto la strada ad altri miliardari e collezionisti. In questo contesto, uno spazio come il Sale è importante perché fornisce uno spazio fisico, politico ed estetico “altro” rispetto a quello dell’arte neoliberale. E questo credo valga anche per il vostro spazio, terzospazio. L’indipendenza culturale e artistica, deve farsi autonomia, non può porsi in senso ancillare rispetto alle istituzioni artistiche neoliberali. Questo non significa evitare ogni collaborazione, ma essere consapevoli. In quanto indipendenti pensiamo di avere meno risorse di quelle che in realtà la cooperazione ci mette a disposizione. Il discorso, però, è politico, non di mera strumentazione. Dobbiamo riabituarci a costruire spazi autonomi, sottraendoci all’occupazione dell’estetica che il neoliberismo produce. Non è solo l’Occidente ad avere cancellato, con il colonialismo, altri modi di percepire e rappresentare il mondo, anche il capitalismo ha avuto un ruolo in tal senso, fuori e dentro lo stesso Occidente.

Anche le istituzioni “maggiori” riorganizzandosi dall’interno e attuando un movimento di divenire-minoritario, riescono talvolta ad aprirsi ad una dimenisone alteristituzionale, capace di sperimentare nuove forme di governance culturale. Oggi esistono numerosi esempi in questa direzione e la rete L’Internationale - della quale fai parte con il tuo progetto IRI, Institute of Radical Imagination - ne rappresenta alcune tra le più significative.

I tempi cambiano in peggio e spazi istituzionali sembrano chiudersi piuttosto che aprirsi. E’ pure vero che l’esempio de L’Internationale è interessante. Il Museo Reina Sofía, ad esempio, sotto la direzione di Manuel Borja-Villel è un caso di alteristituzionalità applicata ad un grande museo pubblico. Pur con tutte le sue contraddizioni e problematicità, Borja ha lavorato su piani diversi. Sulle epistemologie che strutturano museo (lavoro sulle collezioni) e aprendo l’istituzione a soggetti subalterni, attraverso il Museo Situado. Il caso di Madrid mostra come anche un’istituzione pubblica possa assumere un ruolo critico. Magari la Biennale di Venezia avesse un Ufficio Biennale Situata, per interfacciarsi con la città!

Hai accennato alla creazione di spazi autonomi. Puoi approfondire questo concetto?

Su questo punto mi interessa il dibattito che alcune istituzioni artistiche palestinesi stanno portando avanti dopo il 7 ottobre. La scorsa estate sono stato in Cisgiordania, qui ho incontrato artisti e curatori. Ho poi letto un articolo in cui un’operatrice culturale palestinese proponeva una sorta di autocritica del settore. Si interrogava sulle difficoltà nel rispondere al genocidio in corso a Gaza, riconoscendo come trent’anni di finanziamenti da parte di ONG straniere — seguiti agli Accordi di Oslo del 1993 — avessero progressivamente eroso la politicità del settore culturale, un tempo parte integrante del percorso di liberazione nazionale. 

Dopo il 7 ottobre, la situazione si è ulteriormente aggravata. I donors europei ed occidentali hanno cominciato a richiedere ai beneficiari dei fondi di adeguarsi a specifiche narrative: in caso contrario, i finanziamenti venivano negati. Di fatto viene richiesto alle organizzazioni di attestare la loro estraneità alla resistenza palestinese. In questo modo, il finanziamento diventa uno strumento apertamente coloniale. Per contrastare questa dinamica, si è formata una rete di spazi non governativi palestinesi chiamata OWNHE. Questa rete ha individuato due necessità fondamentali: costruire strumenti per l'autonomia artistico culturale e creare un pool di risorse comuni: know-how, tecnologia e fondi, per permettere alle istituzioni di rifiutare i finanziamenti condizionati. 

In un contesto completamente diverso, questa tensione verso forme di autonomia culturale è qualcosa che abbiamo cercato di praticare anche noi. E’ alla base di esperienze come Sale Docks e di quegli spazi che affondano le loro radici nella storia dei centri sociali — realtà portatrici di unsapere prezioso sull’autonomia. L'esempio palestinese è estremo ma immediato, ma qui? Cosa succede quando una fondazione privata finanzia progetti e ricerche artistiche? Rischiamo forme di autocensura o di cattura ideologica? Le formazioni decoloniali più serie, come Decolonize This Place, lo denunciano apertamente, mostrando come nel board del MoMA ci siano uomini legati alla businees della guerra, a quello carcerario e alla speculazione immobiliare che caccia i poveri dalle loro case. Con le mostre a tema decoloniale si comprano la connivenza del mondo dell’arte.

Certo, riassorbire il conflitto è la dinamica più capitalistica del mondo. E lì agisce anche il tokenismo: inclusione solo apparente che neutralizza ogni critica.

Non è tanto diverso da quello che accade qua. Se non c’è critica della struttura il neoliberismo si mangia tutto. 

Nello statuto di Sale Docks scrivete: il nostro intento è quello di rovesciare quei processi che privatizzano i commons culturali. Quali sono i riferimenti teoriciche vi hanno ispirato in questa direzione?

Sul piano teorico, mi concentro sul tema delle Istituzioni del Comune. Toni Negri e Michael Hardt, ad esempio, sostengono che non c'è rivoluzione senza la costruzione di nuove istituzioni. Questo approccio trova riscontro anche nel pensiero afroamericano abolizionista, da W.E.B. Dubois ad Angela Davis fino ai teorici decoloniali contemporanei. L'abolizionismo non si limita a smantellare istituzioni oppressive, ma costruisce nuove forme di organizzazione della vita in comune.

Anche il concetto di Undercommons suggerisce la possibilità di un uso tattico, sotterraneo e non conforme delle strutture esistenti. 

È utile che nelle istituzioni si creino degli Undercommons ma l'obiettivo resta sempre quello di arrivare ai Commons, ovvero a una piena alternativa istituzionale.

 

//

 

Marco Baravalle è ricercatore, curatore e attivista. È membro di Sale Docks, e dell'IRI (Institute Of Radical Imagination). 

 

 



  • Image credits

     

    Cover: "Sale Docks During Art For Radical Ecologies Book Launch", 2024

Cookies

+

To improve our website for you, please allow a cookie from Google Analytics to be set.

Basic cookies that are necessary for the correct function of the website are always set.

The cookie settings can be changed at any time on the Date Privacy page.