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QUANDO IL PRENDERSI CURA HA BISOGNO DELLA PIRATERIA

Sull’uso della disobbedienza contro i regimi di proprietà imperiali.

  • Oct 08 2021
  • Pirate Care
    Pirate Care è un progetto di ricerca transnazionale e una rete di attivisti, studiosi e professionisti che si battono contro la criminalizzazione della solidarietà e per un’infrastruttura comune di cura. Pirate Care è convocato da Valeria Graziano, Marcell Mars e Tomislav Medak.

Nell’ultimo anno le pratiche di cura disobbedienti sono diventate sempre più attuali dopo lo scoppio della pandemia Covid-19. Mentre molti giornalisti, commentatori e ricercatori iniziavano a interrogarsi per la prima volta sull’impatto ad ampio raggio del virus e a riflettere sulle sue implicazioni per la vita sociale, siamo stati testimoni della rapida ascesa del concetto di “cura” – il fulcro della ricerca del collettivo e rete Pirate Care (per essere più precisi, la cura è solo uno dei due punti focali della nostra inchiesta, l'altro è la pirateria [1]).  Questa parola, ha assunto lo status di parola d'ordine nel discorso pubblico degli ultimi mesi, è stata ripetuta all'infinito nei cicli di notizie ed evocata incessantemente nella pletora di dichiarazioni che proliferano nel panorama mediatico. La posta in gioco, a nostro avviso, va più in là di una speculazione intellettuale sul vocabolario contemporaneo: si tratta piuttosto di determinare se esista o meno la possibilità di orientare l'azione politica (ovvero schierarsi, prendere posizioni operative e capaci di conseguenze) all'interno delle complessità di questa lunga pandemia attraverso una prospettiva centrata sulla cura; e se sì, a quali condizioni. 

Durante il processo di ricerca e sperimentazione portato avanti con Pirate Care, abbiamo voluto ancorare il valore d’uso del care come prassi politica radicale al contesto attivamente ostile in cui il lavoro di cura è obbligato a svolgere, mettendo in evidenza la relazione, a nostro avviso sempre più inevitabile, tra cura, criminalizzazione e disobbedienza. Il pirate care è un modo di nominare la costruzione di conflitto che accade all’interno di processi di presa in carico che mira allo smantellamento della proprietà privata, innanzitutto in settori chiavi legati alla salute pubblica. Più precisamente, Pirate Care mette a tema la tendenza nella congiuntura attuale che fa convergere le attività di cura e accudimento con l’istituzione della pirateria, intesa come rifiuto della proprietà privata come forma primaria di relazione sociale. Ci pare infatti che sebbene la cura sia stata analizzata efficacemente in quanto lavoro vivo, attività, prestazione o prassi, si sia dato fin ora meno rilievo alla sua problematica relazione con l’organizzazione sociale della proprietà all’interno della governance neoliberista. 

Nel 2020 sono nate una miriade di iniziative di solidarietà dal basso, mutuo aiuto auto-organizzato, in molti casi in piena autonomia perfino dal terzo settore; molteplici mobilitazioni che hanno portato aiuti essenziali ai più fragili e isolati, mentre la coscienza pubblica si dava conto dei gravi problemi legati allo stato dei servizi sanitari e di welfare. Lo stesso anno ha anche visto diversi governi varare misure di aiuto sociale senza precedenti, come la ri-nazionalizzazione temporanea degli ospedali (Spagna, Irlanda) e la distribuzione di forme di reddito di base per i cittadini più colpiti finanziariamente (USA, Canada, Italia e molti altri paesi). Nonostante la potenzialità politica di tali nazionalizzazioni e elargizioni di reddito di base, anche se temporanee, in questo ultimo anno è mancata in Europa (ma anche in molti altri contesti)  una chiara narrazione della pandemia “a sinistra” (intendendo con questo termine di per sé problematico un insieme di posizioni politiche che danno priorità all’uguaglianza sociale, all’internazionalismo e all’autodeterminazione delle persone). Detto diversamente, una formulazione chiara delle cause e delle possibili strategie di gestione delle molteplici e interconnesse “crisi della cura” [2](Fraser, 2016) ha faticato a trovare spazio. 

Continuando a lavorare intorno al tema pirate care durante questo primo anno pandemico, ci è sembrato che questo focus di ricerca possa contribuire all’elaborazione di una politica della cura che colmi il vuoto tra la solidarietà popolare e di prossimità da un lato e degli interventi di governance dall'alto verso il basso dall’altro. Ad oggi, ci pare che uno dei nodi centrali rimanga ancora questo: non solo trovare modi per politicizzare il terreno della cura incorporando alle riflessioni sul lavoro vivo un’analisi dei regimi di proprietà; ma anche concepire pratiche che siano in grado di ridefinire i termini di ciò che conta come politico in primo luogo. Tali questioni sono state il punto di partenza per sviluppare il nostro approccio specifico al tema della cura, analizzandola attraverso la sua continuità con la pirateria. 

L’idea di pirateria ci permette di convocare nell’immaginario politico tutte quelle pratiche di sopravvivenza e solidarietà che disobbediscono a regole legali e sociali ingiuste in quanto difendono l'espansione della proprietà privata a scapito della vita. La figura del pirata è molto amata dalle sottoculture politiche di sinistra e libertarie perché evoca immediatamente un’immagine di sfida all'autorità e di allegra liberazione plebea. Tuttavia, piuttosto che essere associata a pratiche di cura mutualistiche, la figura del pirata è stata più spesso vista come l'incarnazione di quelle forme di vita avventurose e conviviali che potrebbero diventare possibili una volta lasciato alle spalle lo squallido regime dell'Impero. Gli storici ci dicono che fonti primarie di informazioni sulla vita dei pirati sono scarse e che quelle disponibili derivano principalmente da documenti processuali, dunque scritti da parti ostili. È quindi fatto degno di nota che le storie e le leggende dei pirati abbiano contribuito così tanto alla formazione del moderno concetto di libertà e all'immaginario politico dell’Età dei Lumi. Secondo l’antropologo David Graeber, la mitologia che i pirati misero in circolazione sul proprio conto, romanzando le proprie gesta e stili di vita – compreso le storie su Libertalia, la leggendaria patria dei pirati - può essere considerata 'la forma più importante di espressione poetica prodotta dal proletariato emergente del traffico marittimo nel Nord Atlantico, la cui modalità di sfruttamento aprì la strada alla rivoluzione industriale”.[3]

Gli immaginari politici evocati dall’istituzione della pirateria, quelli di ‘impero’ e ‘pirata’ condividono la medesima etimologia: entrambi i termini sono derivati dal verbo peiran – che in greco antico significava tentare, rischiare, provare.[4] Dunque, la figura del pirata è intimamente legata all'espansione di quegli stessi imperi che la sua forma di vita andava a sfidare. La posta in gioco negli sforzi di entrambe le parti, e nei rischi che ciascuna di esse ha intrapreso, è la forma di governo del mondo stesso. Da un lato, c'era il tentativo di creare un sistema integrato di sfruttamento degli esseri umani e delle risorse naturali; dall'altra, un tentativo di sperimentare forme di democrazia diretta e decentralizzata - che alcune comunità di pirati sono riuscite persino a istituire sulla terra ferma. In altre parole, la posta in gioco era, da un lato, una concezione di libertà individuale basata sull'idea di proprietà privata; e dall'altro, un'idea di liberazione basata sulla sua negazione, sulla messa in comune di risorse, saperi e destino. 

Queste contrastanti concezioni di libertà e proprietà sono il filo rosso che collega le battaglie dei pirati dell'età dell'oro con quelle portate avanti dalle loro controparti contemporanee che combattono contro le moderne leggi sulla proprietà intellettuale, la forma di proprietà privata meno visibile ma più determinante del nesso che unisce automatismi tecnologici, politici e psichici nel segno del capitale. Per questo ci sembra potente spostare il dibattito collettivo sulle questioni cruciali che rimangono in gioco nella lotta tra multinazionali e reti di esperti e professionisti di varia natura che sono determinati a ripoliticizzare la pirateria come atto di legittima sfida contro quelle leggi e norme sociali che antepongono la proprietà alla libertà, concepita come capacità di autonomia nell interdipendenza. La gamma di pratiche che abbiamo incontrato nel processo di Pirate Care vanno in questa direzione,[5] sfidando quella che l’antropologa Annemarie Mol ha raccontato come la dicotomia più problematica del pensiero della cura occidentale: quella che oppone la cure come relazione affettiva alla tecnologia come strumento di ottimizzazione lavorativa.[6]

Proponendosi di istituire e sostenere spazi di detossificazione, resilienza, terapia e solidarietà - concepita come una ridistribuzione del rischio che il capitale pone sulla vita – le pratiche di pirate care non commettono l’errore di rifiutare i saperi tecnici e scientifici per via dei problematici rapporti di forza che questi sempre implicano. Piuttosto, la cura pirata sta delineando un orizzonte dove tecniche tecnologie e strumenti vengono reclamati come infrastruttura comune e quindi soggetta a modifiche e scrutinio.  In questo contesto, sarà dunque importante precisare che tipo di regime di proprietà privata questi pirati contemporanei si trovano ad affrontare.

Ciò che accomuna il moltiplicarsi di servizi mediati da piattaforme; la commercializzazione crescente dei luoghi, strumenti e saperi legate alla salute; e l’espropriazione di terreni comuni - è una mutazione accelerata di risorse, infrastrutture e sistemi sociali in asset, ovvero, di un particolare forma di proprietà privata in cui i profitti derivano dall'aumento del valore della proprietà stessa, piuttosto che dalla produzione. Ciò fa parte della più ampia tendenza verso la finanziarizzazione di tutte le transazioni economiche e fornisce la base che permette al capitale finanziario di esercitare un ​​controllo capillare sullo sviluppo futuro di una vasta gamma di beni e servizi, senza necessariamente impossessarsene direttamente. Dimensioni di vita essenziali come la salute, l'assistenza agli anziani, l'alloggio, l'istruzione e così via, vengono sempre più convertite in asset. Allo stesso tempo, altre funzioni oggi indispensabili come le pensioni, l'assicurazione sanitaria e il risparmio di molte persone comuni sono arrivate ​​a dipendere dal reddito generato da questi stessi processi di autorizzazione. Tale assetizzazione sta quindi progressivamente incastrando un numero sempre maggiore di persone in una tendenza di sviluppo sociale che creerà società ancora più segregate, espropriandoci dalla nostra stessa capacità di plasmare il futuro. 

Cogliere il nesso tra proprietà privata e messa a profitto del futuro è un nodo cruciale per capire il vuoto politico e la difficoltà a concretizzare politicamente una società improntata alla cura, ovvero, a pratiche che si occupino, tra le altre cose, della relazione tra diverse generazioni di esseri, umani e non. La risposta politica alla pandemia ha già radicalizzato ulteriormente la viscerale divisione del lavoro di riproduzione sociale – i soggetti che se ne fanno carico sono oggi ancora più svantaggiati. L'ampio dettaglio statistico del rapporto 2018 dell'ILO sul lavoro di cura [7] dipinge un quadro molto chiaro: la maggior parte del lavoro di cura, retribuito e non, è svolto da persone di classe bassa, in maggioranza donne, migranti e persone di colore. Eppure, mentre esistono rivendicazioni importanti organizzate intorno a questioni di genere, di status lavorativo e di “razza”, la condizione di carer (persona con dipendenti a carico e/o responsabile di mansioni di riproduzione sociale essenziali e continue) non ha ancora dispiegato tutta la sua potenzialità politica. Durante la pandemia, la maggior parte dei carers non ha avuto altra scelta che continuare a lavorare, in condizioni rese più difficili dai blocchi e senza avere accesso ad ulteriori risorse, mettendo a rischio la propria salute e la salute delle proprie comunità.

Come la letteratura femminista nera e decoloniale sottolinea con forza, il lavoro di cura sotto il capitalismo è strutturato attorno a questa asimmetria: i soggetti che prestano lavoro di cura sono tra coloro che meno avranno accesso a cure adeguate. [8]

L'esplosione della solidarietà dal basso durante il primo anno di pandemia era orientata a colmare le lacune create nel panorama istituzionale da una insufficiente capacità sanitaria, dalla negligenza burocratica e da una deliberata esclusione sociale. Tale risposta della società civile è tuttavia situata e localizzata, mentre i meccanismi che guidano le logiche della cura capitalista sono strutturali e globali. L'assetizzazione crea meccanismi di auto-rafforzamento che limitano in maniera preoccupante le future possibilità di trasformazione istituzionale e impediscono a priori qualsiasi cambiamento di governance che sia capace di sottrarre i servizi essenziali da una logica di accumulazione di capitale. Tale processo è sostenuto anche dal cambiamento tecnologico, che sta normalizzando e rendendo invisibili le condizioni dei lavoratori a bassa retribuzione, e dalla proliferazione di strumenti legali che rendono “legittimo” il loro sfruttamento. Per tale ragione, nel nostro lavoro su Pirate Care, ci siamo concentrati su pratiche che non solo si auto-organizzano intorno alla cura in modi nuovi, ma lo fanno disobbedendo apertamente a leggi, ordini esecutivi e accordi istituzionali, ogni volta che questi ostacolano la libertà e la solidarietà. Le persone impegnate in queste pratiche spesso articolano le loro azioni disobbedienti come richieste politiche, contestando la normalizzazione dei regimi di esclusione. Questo è il motivo per cui li abbiamo chiamati "pirati". Quello che fanno spesso comporta dei rischi: vengono arrestati e perseguiti per salvare le persone dall'annegamento nel Mediterraneo; per lasciare taniche d’acqua ai migranti che attraversano il deserto; per aiutare donne ad abortire; per fornire riparo ai senzatetto; per scaricare articoli scientifici. L'incapacità di cogliere la pandemia come un'opportunità per trasformare in meglio le politiche e i valori alla base della salute pubblica e delle altre aree di assistenza sociale è stata del tutto prevedibile. Per questo tali condizioni devono essere poste al centro del nostro orizzonte politico: devono essere politicizzate affinché qualsiasi discorso sul futuro della cura possa trovare un senso che non si limiti a mobilitazioni emergenziali di solidarietà. 

La versione completa del testo sarà pubblicata entro fine anno nell'antologia Politiche della Cura, a cura di Maddalena Fragnito e Miriam Tola, Ortothes 2021.



  • FOOTNOTES
    .
    [1] Per ulteriori informazioni sul progetto Pirate Care, si rimanda al sito https://pirate.care/.
    [2] Fraser, Nancy, Contradictions of capital and care. New left review 100.99 (2016): 117.
    [3] David Graeber, Les Pirates des Lumières ou la véritable histoire de Libertalia (Libertalia, 2019), e-book. Nostra traduzione.
    [4] Amedeo Policante, The Pirate Myth: Genealogies of an Imperial Concept, Routledge, 2015.
    [5] Per un approfondimento, si rimanda al sito: https://pirate.care.
    [6] Annemarie Mol, Care in practice, transcript-Verlag, 2015
    [7] Laura Addati et al., Care Work and Care Jobs for the Future of Decent Work, Geneva: ILO, 2018.
    [8] Per approfondire: Evelyn Nakano Glenn, ‘From Servitude to Service Work: Historical Continuities in the Racial Division of Paid Reproductive Labor’, Signs: Journal of Women in Culture and Society 18, no. 1 (1992): 1–43; Tamara Beauboeuf-Lafontant, ‘You Have to Show Strength: An Exploration of Gender, Race, and Depression’, Gender & Society 21, no. 1 (2007): 28–51; Alessandra Mezzadri, ‘On the Value of Social Reproduction: Informal Labour, the Majority World and the Need for Inclusive Theories and Politics’, Radical Philosophy, no. 204 (2019): 33–41; Natalia Quiroga Diaz, ‘Economía Del Cuidado. Reflexiones Para Un Feminismo Decolonial’, Revista Feminista Casa de La Mujer 20, no. 2 (2011): 97–116; Françoise Vergès, Un féminisme décolonial, La fabrique éditions, 2019.

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