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Quando il prendersi cura ha bisogno della pirateria

Sull’uso della disobbedienza contro i regimi di proprietà imperiali.

  • Sep 17 2025
  • Valeria Graziano, con Tomislav Medak e Marcell Mars
    Valeria Graziano è una teorica e docente che attualmente lavora presso il Centre for Postdigital Cultures dell'Università di Coventry. Nel corso degli anni ha partecipato a numerose iniziative di analisi istituzionale e pedagogia collettiva nel settore culturale e nei movimenti sociali.

    Marcell Mars è ricercatore presso il Centre for Postdigital Cultures. È uno dei fondatori del Multimedia Institute/MAMA di Zagabria. Insieme a Tomislav Medak ha fondato Memory of the World/Public Library, per il quale sviluppa e gestisce l'infrastruttura software.

    Tomislav Medak è dottorando presso il Centre for Postdigital Cultures. È membro del team di teoria e pubblicazione del Multimedia Institute/MAMA di Zagabria, nonché bibliotecario dilettante per il progetto Memory of the World/Public Library.
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    Tutti e tre gli autori sono coordinatori di Pirate Care (https://pirate.care), un processo di ricerca translocale incentrato sull'apprendimento collettivo e sulle risposte disobbedienti all'attuale crisi dell'assistenza sanitaria.

Facciamo parte di un collettivo e una rete – Pirate Care – il cui lavoro di ricerca si è concentrato su pratiche di cura disobbedienti. Nell’ultimo anno abbiamo visto il nostro lavoro diventare sempre più attuale dopo lo scoppio della pandemia Covid-19. Mentre molti giornalisti, commentatori e ricercatori iniziavano a interrogarsi per la prima volta sull’impatto ad ampio raggio del virus e a riflettere sulle sue implicazioni per la vita sociale, siamo stati testimoni della rapida ascesa del concetto di “cura” – il fulcro della nostra ricerca – che ha assunto lo status di parola d'ordine nel discorso pubblico degli ultimi mesi. (Per essere più precisi, la cura era solo uno dei due punti focali della nostra inchiesta, l'altro era la pirateria.)[1] Questa parola è stata ripetuta all'infinito nei cicli di notizie ed evocata incessantemente nella pletora di dichiarazioni che proliferavano nel panorama mediatico. 

A preoccuparci è che questa esplosione della “cura” praticamente ovunque – incluso, con nostro sgomento, nei discorsi di manager e politicanti che esortano i lavoratori a “prendersi cura” di sé stessi per mantenere i normali livelli di produttività – possa portare a un esaurimento delle capacità critiche del termine e allo sviluppo di una “fatica della cura”, dato il tono performativo obbligatorio che così spesso comporta. Siamo anche preoccupati che essere a favore della cura sia poco più che una forma obbligatoria di “virtue signalling”, ovvero un modo per rendersi visibili come eticamente virtuosi in una società liberal ben educata ma molto distante dai luoghi e i corpi presso cui la crisi della cura si scatena con più ferocia. Questo ci ha spinto a rivisitare il nostro modo di comprendere questo concetto e a chiederci quale possa esserne il valore d’uso nella congiuntura attuale, per cercare di articolare meglio le ragioni del nostro istintivo accoppiamento della “cura” con il termine “pirata”, quando iniziammo la nostra ricerca nel 2018. La posta in gioco, a nostro avviso, va più in là di una speculazione intellettuale sul vocabolario contemporaneo: si tratta piuttosto di determinare se esista o meno la possibilità di orientare l'azione politica (ovvero schierarsi, prendere posizioni operative e capaci di conseguenze) all'interno delle complessità di questa lunga pandemia attraverso una prospettiva centrata sulla cura; e se sì, a quali condizioni. 

 

Cura, una nozione pacificante? 

Il “prendersi cura” – una delle possibili approssimazioni in italiano del termine inglese care sul quale abbiamo lavorato – è un'idea estremamente capiente. Comprende lavoro, emozioni, conoscenze e risorse, nonché ragionamenti etici e morali. Può svolgersi come prestazione a pagamento o venir eseguita gratuitamente, come parte di una relazione di reciprocità o di asservimento. Il prendersi cura può essere un piacere, il compito più appagante, ma anche una fatica di Sisifo che non lascia scampo. Può descrivere un'attenzione riflessiva verso le pratiche del sé (quella cura di sé tracciata da Michel Foucault attraverso l’età classica [2] , per esempio) o può essere un agire diretto verso gli altri che ne delimita le condotte. Comprende la micropolitica delle interazioni quotidiane tanto quanto la vasta scala dei sistemi globali che le modellano. Tradizioni filosofiche diverse, che includono il care ethics inaugurato da Carol Gilligan o il femminismo marxista di Silvia Federici e altre compagne, se ne sono occupate. Definizioni date a questo termine vanno da “il lavoro che va ad accudire chi non può o non è incline a badare a se stesso” a “la creazione e riproduzione di legami sociali nella quotidianità e intergenerazionalmente”, recentemente adottato dal movimento dello sciopero femminista [3], passando per “le attività di manutenzione e riparazione del nostro mondo in modo che umani e non umani possano viverci nel miglior modo possibile” originariamente proposto da Joan Tronto e Berenice Fisher [4] e più recentemente aggiornato da Maria Puig de la Bellacasa [5]; fino ad arrivare a una definizione per noi particolarmente efficace e importante per la nostra riflessione politica, articolata da David Graeber, per cui care sostanzialmente corrisponderebbe a tutto quel “lavoro che mira a sostenere o aumentare la libertà degli altri” [6]

Ma è proprio la capienza del care – che abbraccia l’arco di significati semantici che vanno dal curare e al prendersi cura, fino al ‘prendere a cuore’ qualcosa per farla diventare importante – a rendere questo concetto incline a usi impropri e a veri e propri abusi, come quando inizia a circolare come parola chiave nelle attuali guerre politiche che stanno determinando il futuro ordine delle società mondiali, senza che questo comporti alcuna ridistribuzione di potere (un esempio di questo uso improprio del termine è il “Cura Italia”) . Inoltre, il termine care non è sempre gradito al femminismo materialista, ambito in cui si preferisce incentrare le riflessioni sull’idea di ‘riproduzione sociale’, termine che scarta l’inflessione sentimentale per concentrarsi sulle implicazioni che la cura comporta in termini di lavoro vivo. 

All'indomani della prima ondata di pandemia all’inizio del 2020, rileviamo che il care è invocato sempre più spesso per evitare dibattiti politici più urgenti e radicali. Invece di funzionare come perno per un ripensamento fondamentale delle istituzioni e delle infrastrutture, il linguaggio della cura rischia di confinare il dibattito a registri più morali, in cui i richiami alla solidarietà comportano poco più che atti simbolici. Il rituale del pubblico applauso per gli operatori sanitari, adottato in molti paesi all’inizio della pandemia, è uno dei principali esempi di questa tendenza. Mentre dottori e infermieri venivano celebrati come eroi altruisti, le loro condizioni lavorative continuavano a prevedere turni massacranti e scarse protezioni; essi diventavano perciò eroi, sì, ma sacrificali, messi a rischio di vita da politiche che sistematicamente rifiutavano di ripensare i meccanismi base delle prestazioni mediche. 

Nonostante quanto detto finora, non vogliamo ancora rinunciare al care per consegnarlo al populismo identitario. Una nozione che ha la capacità di esprimere contemporaneamente un orientamento etico, uno stato emotivo e una prassi concreta merita di trovare un miglior uso politico. Siamo convinti che la necessità di prendersi cura delle persone e dei loro ambienti di vita possa contribuire a un riorientamento delle priorità sociali e dei linguaggi. 

Recenti mobilitazioni politiche dal basso come il Care Income promossa dal movimento Global Women Strike; le Essential Autonomous Struggles portate avanti dal Transnational Social Strike Platform; o le lotte promosse attraverso l’hastag #ProtectHomeCareWorkers lanciato dall’UNI Global Union rivendicano un significato della cura che è militante e specifico insieme. A livello di elaborazione teorica, segnaliamo il recente The Care Manifesto, scritto da un collettivo inglese vicino a Jeremy Corbyn [7]. In Spagna, l’idea di una Sociedad de los Cuidados emerse già nel 2013 come proposta di una rete di città metropolitane guidate da Barcellona e Madrid [8]. Sempre in contesto ispanofono, espressioni quali “cuidadocracia e “cuidacracia rimandano a importanti discussioni portate avanti nel corso dell’ultimo ventennio. Con quest’ultimo termine si intende rivendicare una democrazia  “dove si contempla e si garantisce il diritto di prendersi cura, di non curarsi, di essere curata e di non essere curata [10](Colectivo Brujas y Diversas, 2015: 57).

Durante il processo di ricerca e sperimentazione portato avanti durante Pirate Care, abbiamo voluto ancorare il valore d’uso del care come prassi politica radicale al contesto attivamente ostile in cui il lavoro di cura è obbligato a svolgersi, mettendo in evidenza la relazione, a nostro avviso sempre più inevitabile, tra cura, criminalizzazione e disobbedienza. Il pirate care è un modo di nominare la costruzione di conflitto che accade all’interno di processi di presa in carico che mirano allo smantellamento della proprietà privata, innanzitutto in settori chiave legati alla salute pubblica. Più precisamente, vogliamo mettere a tema la tendenza nella congiuntura attuale che fa convergere le attività di cura e accudimento con l’istituzione della pirateria, intesa come rifiuto della proprietà privata come forma primaria di relazione sociale. Ci pare infatti che sebbene la cura sia stata analizzata efficacemente in quanto lavoro vivo, attività, prestazione o prassi dai movimenti e documenti come quelli citati sopra, si sia dato finora meno rilievo alla problematica relazione della cura con l’organizzazione sociale della proprietà all’interno della governance neoliberista. 

Il primo ciclo di reazioni alla pandemia di Covid-19, che a un anno di distanza possiamo iniziare ad analizzare, pur con molta parzialità, offre un punto di partenza efficace per riflettere su tale nesso. Quest’anno sono nate una miriade di iniziative di solidarietà dal basso, mutuo aiuto auto-organizzato, in molti casi in piena autonomia perfino dal terzo settore; molteplici mobilitazioni che hanno portato aiuti essenziali ai più fragili e isolati, mentre la coscienza pubblica si dava conto dei gravi problemi legati allo stato dei servizi sanitari e di welfare. Il 2020 ha anche visto diversi governi varare misure di aiuto sociale senza precedenti, come la rinazionalizzazione temporanea degli ospedali (Spagna, Irlanda [11]) e la distribuzione di forme di reddito di base per i cittadini più colpiti finanziariamente (USA, Canada, Italia e molti altri paesi).  

Nonostante la potenzialità’ politica di tali nazionalizzazioni e elargizioni di reddito di base, anche se temporanee, in questo ultimo anno è mancata in Europa (ma anche in molti altri contesti)  una chiara narrazione della pandemia “a sinistra” (intendendo con questo termine di per sé problematico un insieme di posizioni politiche che danno priorità all’uguaglianza sociale, all’internazionalismo e all’autodeterminazione delle persone). Detto diversamente, una formulazione chiara delle cause e delle possibili strategie di gestione delle molteplici e interconnesse “crisi della cura” [12] (Fraser, 2016) ha faticato a trovare spazio. 

Da un lato, all'interno delle pratiche mutualistiche comunitarie e di prossimità è mancato un chiaro posizionamento politico (con poche eccezioni, per esempio le Brigate a Milano). Sebbene le iniziative di solidarietà popolare siano state cruciali per soddisfare l'improvviso aumento della domanda di vari tipi di sostegno, domanda che gli stati e i mercati non erano né capaci né disposti a fornire adeguatamente, queste non sono sfociate in mobilitazioni politiche con domande di cambiamento sistemico. Ad esempio, le campagne per rendere pubblici i brevetti dei vaccini Covid-19 si sono largamente limitate a circolare come petizioni online [13] e non sono sfociate in conflitti più articolati, prevedibilmente incidendo solo marginalmente sulle decisioni prese a livello internazionale (fino al 2021 inoltrato non si è seriamente aperto un dibattito politico sulla questione). Contrariamente alle reazioni in altri momenti storici di grande crisi, sembra esserci stata una seria difficoltà a livello di movimenti sociali nel trovare modalità organizzative che fossero in grado di offrire risposte politiche all’altezza della complessità dei fenomeni di impoverimento durante la pandemia, un processo che potrebbe essere concepito come un vero e proprio processo di “pauperizzazione” [14], per dirla con Marx, ovvero, come un processo di riduzione di ogni aspetto della vita ad una condizione di miseria. 

Continuando a lavorare intorno al tema pirate care durante questo primo anno pandemico, ci è sembrato che questo focus di ricerca possa contribuire all’elaborazione di una politica della cura che colmi il vuoto tra la solidarietà popolare e di prossimità da un lato e gli interventi di governance dall'alto verso il basso dall’altro.

Ad oggi, ci pare che uno dei nodi centrali rimanga ancora questo: non solo trovare modi per politicizzare il terreno della cura incorporando alle riflessioni sul lavoro vivo un’analisi dei regimi di proprietà, ma anche concepire pratiche che siano in grado di ridefinire i termini di ciò che conta come politico in primo luogo. Tali questioni sono state il punto di partenza per sviluppare il nostro approccio specifico al tema della cura, analizzandola attraverso la sua continuità con la pirateria. 

Racconti pirata di cura e libertà 

L’idea di pirateria ci permette di convocare nell’immaginario politico tutte quelle pratiche di sopravvivenza e solidarietà che disobbediscono a regole legali e sociali ingiuste in quanto difendono l'espansione della proprietà privata a scapito della vita. 

La figura del pirata è molto amata dalle sottoculture politiche di sinistra e libertarie perché evoca immediatamente un’immagine di sfida all'autorità e di allegra liberazione plebea. Nella sua incarnazione più popolare - un marinaio lacero con una benda nera su un occhio, una gamba di legno e un uncino a sostituire una mano mancante - la figura del pirata porta già inscritta sul suo corpo una storia di cure disobbedienti. Infatti, durante la cosiddetta età dell’oro della pirateria, tra il 1650 e il 1730, coloro che sceglievano di ammutinarsi per navigare insieme sotto la bandiera del Jolly Roger si davano regole precise per il risarcimento dei feriti in battaglia. A differenza di quanto accadeva nella marina o sulle navi commerciali, che si liberavano in fretta dei marinai di rango inferiore una volta che, feriti, non erano più utili a bordo, ai pirati infermi era permesso di rimanere con i loro equipaggi finché lo desideravano ed avevano diritto a ricevere assistenza sanitaria a bordo [15]. Pare infatti che lo stesso dottore e chirurgo di bordo, insieme alla sua preziosa cassetta dei medicinali, fossero uno dei trofei più ambiti durante gli arrembaggi [16]. D’altronde, erano proprio le terribili condizioni di vita e lavoro a bordo delle navi regolari, tra cui “l’arruolamento forzato, la rigida disciplina, le scarse provviste e condizioni igieniche, i lunghi periodi di reclusione a bordo e gli arretrati salariali” [17] a spingere migliaia di uomini a diventare pirati. 

Tuttavia, piuttosto che essere associata a pratiche di cura mutualistiche, la figura del pirata è stata più spesso vista come l'incarnazione di quelle forme di vita avventurose e conviviali che potrebbero diventare possibili una volta lasciato alle spalle lo squallido regime dell'Impero. Gli storici ci dicono che le fonti primarie di informazioni sulla vita dei pirati sono scarse e che quelle disponibili derivano principalmente da documenti processuali, dunque scritti da parti ostili. È quindi fatto degno di nota che le storie e le leggende dei pirati abbiano contribuito così tanto alla formazione del moderno concetto di libertà e all'immaginario politico dell’Età dei Lumi. Secondo l’antropologo David Graeber, la mitologia che i pirati misero in circolazione sul proprio conto, romanzando le proprie gesta e stili di vita – compreso le storie su Libertalia, la leggendaria patria dei pirati - può essere considerata 'la forma più importante di espressione poetica prodotta dal proletariato emergente del traffico marittimo nel Nord Atlantico, la cui modalità di sfruttamento aprì la strada alla rivoluzione industriale”[ 18] 

La storia dell'imperialismo europeo e l'ascesa del capitale globale sono davvero vicende interlacciate e marittime. Insieme alla piantagione e alla miniera, la nave è infatti uno dei luoghi chiave in cui è nato il moderno sistema capitalista di accumulazione. Fu nel ventre della nave che furono attuati per la prima volta i moderni e implacabili regimi di disciplina del lavoro; mentre nuove forme di speculazione finanziaria sulle proprietà fungibili vennero introdotte per assicurare i suoi preziosi carichi. [19] Non c’è da stupirsi dunque se, a differenza del corsaro, che svolse un ruolo chiave nell'espansione imperiale e il cui diritto al saccheggio era sancito da ufficiali Lettres des marques, il pirata apparve sulla scena della storia come una figura intollerabile, che rappresentava una minaccia di rottura di questo nuovo ordine mondiale emergente. 

In un’epoca in cui gli imperi erano vicini ad estendere il loro dominio su tutte le terre e i popoli conosciuti sul pianeta, le navi pirata erano luoghi inammissibili, corpi estranei, esistenti oltre i confini di un progetto di capitalismo globale. Come sostenuto da Amedeo Policante, il concetto di Giurisdizione Universale Assoluta (il diritto degli Stati di rivendicare la giurisdizione su un imputato indipendentemente dalla sua nazionalità o dal luogo del presunto crimine) è stato introdotto per la prima volta dagli Stati europei nel XVIII secolo come misura eccezionale, specificamente progettata per processare gli equipaggi pirata che operavano al di fuori della giurisdizione di ogni singolo stato. Successivamente, questo provvedimento è stato esteso e si è sviluppato al punto di “trasformare radicalmente la natura stessa del diritto internazionale[20]

Policante ha inoltre notato un altro elemento peculiare rispetto all’immaginario politico evocato dall’istituzione della pirateria, ovvero che le parole ‘impero’ e ‘pirata’ condividono la medesima etimologia: entrambi i termini sono derivati dal verbo peiran – che in greco antico significava tentare, rischiare, provare [21]. Dunque, la figura del pirata è intimamente legata all'espansione di quegli stessi imperi che la sua forma di vita andava a sfidare. La posta in gioco negli sforzi di entrambe le parti, e nei rischi che ciascuna di esse ha intrapreso, è la forma di governo del mondo stesso. Da un lato, c'era il tentativo di creare un sistema integrato di sfruttamento degli esseri umani e delle risorse naturali; dall'altra, un tentativo di sperimentare forme di democrazia diretta e decentralizzata - che alcune comunità di pirati sono riuscite persino a istituire sulla terraferma (Si veda a questo proposito il già citato libro di David Graeber). In altre parole, la posta in gioco era, da un lato, una concezione di libertà individuale basata sull'idea di proprietà privata; e, dall'altro, un'idea di liberazione basata sulla sua negazione, sulla messa in comune di risorse, saperi e destino. 

Queste contrastanti concezioni di libertà e proprietà sono il filo rosso che collega le battaglie dei pirati dell'età dell'oro con quelle portate avanti dalle loro controparti contemporanee che combattono contro le moderne leggi sulla proprietà intellettuale, la forma di proprietà privata meno visibile ma più determinante del nesso che unisce automatismi tecnologici, politici e psichici nel segno del capitale. La pirateria odierna è in gran parte associata alle battaglie sul valore d’uso delle tecnologie; sull’accesso ai saperi; sulla fruizione della cultura (bellezza e poesia come diritti fondamentali); sulle nuove frontiere d’accumulazione primaria inaugurate dalla biogenetica. Chi possiede il copyright, chi possiede il brevetto, chi possiede l’algoritmo, e in base a quali condizioni tali conoscenze – come per esempio ricerche scientifiche, dati, codici sorgenti, opere d’arte, sequenze di DNA, medicinali o sementi, solo per citare alcuni esempi – possono essere utilizzate e condivise, determina la gamma di azioni autonome a disposizione dei singoli, altamente interconnessi. Nuove e vecchie forme di privatizzazione hanno implicazioni immense per l’organizzazione della cura nelle società contemporanee. È questa la trama sulla quale si innervano moltissime delle gravi carenze che debilitano la cura vista come una tipologia di lavoro che necessita di saperi e strumenti, oltre che di risorse. Eppure il problema di chi possiede cosa e come spesso rimane sullo sfondo, invisibile come gli stessi proprietari senza volto di brevetti e software, mentre ci si è concentrate maggiormente sui problemi che investono la cura in quanto lavoro vivo, che ricade in grande maggioranza sulle spalle di corpi femminili, neri e migranti.  

Per questo ci sembra potente spostare il dibattito collettivo sulle questioni cruciali che rimangono in gioco nella lotta tra multinazionali e reti di esperti e professionisti di varia natura che sono determinati a ripoliticizzare la pirateria come atto di legittima sfida contro quelle leggi e norme sociali che antepongono la proprietà alla libertà, concepita come capacità di autonomia nell’interdipendenza. La gamma di pratiche che abbiamo incontrato nel processo di Pirate Care vanno in questa direzione[22] sfidando quella che l’antropologa Annemarie Mol ha raccontato come la dicotomia più problematica del pensiero della cura occidentale: 

Durante il ventesimo secolo si è sostenuto comunemente che la cura fosse altro rispetto alla tecnologia. La cura aveva a che fare con il calore e l'amore mentre la tecnologia, al contrario, era fredda e razionale. La cura era nutriente, la tecnologia era strumentale… Cura (e relazioni di cura) a casa, tecnologia (e relazioni strumentali) sul posto di lavoro. Un mondo di vita da una parte e un sistema dall’altra. [23] 
(Mol et al., 2015)

Proponendosi di instituire e sostenere spazi di detossificazione, resilienza, terapia e solidarietà – concepita come una ridistribuzione del rischio che il capitale pone sulla vita – le pratiche di pirate care non commettono l’errore di rifiutare i saperi tecnici e scientifici per via dei problematici rapporti di forza che questi sempre implicano. Piuttosto, la cura pirata sta delineando un orizzonte dove tecniche, tecnologie e strumenti vengono reclamati come infrastruttura comune e quindi soggetti a modifiche e scrutinio.  In questo contesto, sarà dunque importante precisare che tipo di regime di proprietà privata questi pirati contemporanei si trovano ad affrontare.

Nel vuoto 

Abbiamo accennato in precedenza come, nel corso dell'ultimo anno, ci siamo trovati a riflettere sempre più spesso su un vuoto politico sempre più percepibile che si stava aprendo tra da un lato, le iniziative di solidarietà organizzate autonomamente dal basso, iper-localizzate e impostate in gran parte su forme di volontariato civico più che di militanza politica, e dall’altro, i limitati e frammentari meccanismi di sostegno offerti da vari enti governativi in risposta alla crisi pandemica. L'implementazione dei tipi di riforma del welfare che sarebbero necessari su una scala rilevante per soddisfare i bisogni delle persone in una simile crisi avrebbe implicato, inevitabilmente, un cambio radicale degli attuali regimi fiscali, ovvero quegli stessi regimi internazionali che sono stati in continua evoluzione sin da quando furono concepiti per la prima volta per combattere i pirati e che oggi inquadrano la portata e la legittimità di tutte le transazioni finanziarie globali. Non sorprende perciò che un uso politico della pandemia in senso progressista (intendendo con questo termine vasto un’agenda che miri al miglioramento generale delle condizioni di vita) non si sia verificato. 

Invece, il vuoto che sussiste al di là di quanto fornito dalle iniziative civiche e dalle azioni governative è destinato ad essere riempito dal mercato. Anche prima che la pandemia accendesse l’attenzione collettiva, per un breve momento, sulle problematiche legate alla marchetizzazione della cura, questa è stata sempre più normalizzata e organizzata attraverso regimi di proprietà almeno a partire dagli anni Ottanta. 

Vogliamo descrivere qui tre tendenze nel mondo del grande capitale che stanno plasmando e beneficiando delle pratiche attraverso le quali viene organizzata la cura: un'accelerazione nella divisione del lavoro a piattaforme; un aumento della commercializzazione di segmenti mirati della fornitura di assistenza sanitaria; e il continuo furto di terre globalizzate che sta privando le persone dei loro mezzi di sostentamento e costringendole alla migrazione. Queste tre tendenze perimetrano quello che per noi rende urgente il ripensamento della cura in chiave pirata, ovvero alla luce di prassi che concepiscano la proprietà privata come loro terreno di scontro. 

 

Un aumento della divisione del lavoro: l’insinuarsi delle piattaforme 

L'accelerata digitalizzazione di tutti gli aspetti della vita nell'attuale congiuntura della pandemia ha portato a una significativa trasformazione delle condizioni di lavoro: chi può lavorare nella sicurezza della propria casa è arrivato a dipendere da piattaforme digitali non solo per il proprio lavoro e per la consegna di generi alimentari e / o medicinali, ma anche per il contatto con amici e famigliari. I bisogni e i desideri delle classi medie e alte sono sempre più soddisfatti da un esercito crescente di assistenti a basso salario, raccoglitori di magazzino e corrieri che anche durante la pandemia hanno continuato a muoversi lungo vettori logistici invisibilizzanti, mettendo a rischio di infezione loro stessi e le loro comunità. Il blocco di socialità innescato dalla pandemia ha portato a un rapido aumento della velocità con cui sia il telelavoro che le prestazioni di fornitura vengono riorganizzati secondo una logica che la sociologa  Ursula Huws  ha definito di “logged labour”[24], ovvero “lavoro registrato”, coordinato, quantificato e misurato in tempo reale tramite app e piattaforme dedicate. Processi simili hanno inoltre travolto gli ambiti della vita legati all'istruzione, alla cultura e al tempo libero. L'interazione tra soggetti cosiddetti “addomesticati / connessi” e “mobili / usa e getta” [25]– prendendo a prestito la suggestiva definizione di Ian Alan Paul - resi operativi attraverso il capitale in rete che fa dell'uno il supervisore digitale dell'altro, ha accelerato questo tipo di divisione del lavoro a piattaforme e ha approfondito la separazione tra le classi lavoratrici, impedendo di fatto una composizione di classe capace di convergere intorno a interessi condivisi. 

Le grandi aziende tecnologiche hanno prontamente abbracciato la loro nuova posizione centrale nel coordinamento della vita pandemica. Amazon, Deliveroo e una serie infinita di altri servizi di consegna si sono ampliati per soddisfare una domanda in forte espansione, accumulando incessantemente la pressione sul loro personale affinché lavori a ritmo vertiginoso. In un processo parallelo, le società che invece gestiscono principalmente strumenti tecnologici e dati, piuttosto che lavoro vivo, si sono mobilitate per incrementare il loro profilo pubblico. Google e Apple, per citare solo due tra i colossi principali, nell’ultimo anno hanno rivendicato per sé stessi il ruolo di sostenitori benevoli della salute pubblica, creando un protocollo di tracciamento dei contatti per preservare la privacy, rilasciando regolarmente rapporti sulla mobilità delle popolazioni e monitorando gli effetti delle misure di blocco. Nel frattempo Zoom, WhatsApp e altre piattaforme di comunicazione sono diventate sempre più determinanti della nostra capacità di lavorare, socializzare e organizzarci. A parte le differenze tra queste società, la nostra improvvisa dipendenza collettiva da tali piattaforme digitali private ha creato una manna per l'oligarchia tecno-capitalista, che Naomi Klein ha soprannominato “Screen New Deal”.[26] Da un lato, la maggior parte dei governi ha deciso di destinare preziose risorse pubbliche all’acquisto di prodotti digitali che promettono generici benefici di innovazione ed efficienza nell’erogazione di prestazioni di cura, sottraendo così denaro pubblico da altri tipi di investimenti strutturali diretti nei servizi di salute. Dall’altro, i mercati finanziari, inondati di denaro che non deve essere investito da nessuna parte durante la più grande contrazione economica globale dalla seconda guerra mondiale, hanno assicurato un fantastico aumento della ricchezza per piattaforme digitali. Pensando alla salute e alla riproduzione sociale come terreni di scontro politico, è importante dunque capire che tutte queste aziende usciranno dalla crisi attuale pronte a esercitare un impatto smisurato sulla futura direzione dello sviluppo sociale e a continuare la colonizzazione di gran parte dell'economia della cura. 

Colpire con precisione: il futuro della sanità 

La capacità sanitaria di far fronte all'aumento esponenziale di malati gravi di Covid è stata, e rimane tuttora, la preoccupazione centrale dal punto di vista della salute pubblica. Nel famoso grafico “Flattening the Curve” [27] (“appiattire la curva”) utilizzato dall'OMS e altri organi ufficiali per illustrare questa preoccupazione a livello divulgativo, tuttavia, la curva da modificare si riferisce unicamente al contenimento epidemiologico, ovvero ad un abbassamento della rapidità e del numero dei contagi. Invece la capacità sanitaria è mostrata solitamente come una linea orizzontale retta, invariata nel tempo. Lo svolgersi della pandemia ha dimostrato però che rappresentare questa capacità sociale di prendersi cura della salute collettiva come una linea piatta e continua è solo un’illusione ottica scollegata dalla realtà. I dati parlano chiaro. Nei paesi a basso reddito, la spesa per la salute pubblica è calata negli ultimi cinque anni dal 30% al 22%;[28 ] il privato non ha interessi sufficienti ad occuparsi di un’ampia gamma di malattie e infermità che non riescono a produrre profitto per gli azionisti; e i sistemi basati sull’assicurazione privata finiscono per far lievitare i prezzi delle prestazioni ed escludere estesi segmenti di popolazione. Nel caso del Covid-19, inizialmente la capacità sanitaria è stata misurata in termini di capacità di soddisfare l'urgente necessità di più letti e ventilatori in terapia intensiva, ma le carenze nella fornitura di cure e assistenza relative ad altre patologie si sono man mano rivelate altrettanto problematiche. Con la pandemia, gli effetti paralizzanti delle privatizzazioni effettuate nei decenni precedenti sono deflagrati, rendendo il diritto alla salute – valore cardine nell’ordinamento degli stati liberali – di fatto non attuabile. Personale medico oberato di lavoro; assistenza sanitaria primaria a corto di risorse; l’abbandono di massa degli anziani nelle case di riposo; precarietà degli operatori sanitari; difficoltà di coordinamento territoriale sono solo alcuni dei problemi determinati dalla deliberata disaggregazione dei sistemi sanitari avvenuta in molti paesi, tra cui l’Italia. Lo schema è sempre lo stesso: i trattamenti di alto valore vengono privatizzati e le cliniche private sono autorizzate a ottenere profitti elevati, mentre i sistemi sanitari pubblici hanno il compito di fornire assistenza sanitaria di base e di farsi carico della prevenzione delle malattie, due aree di intervento che richiedono non tanto investimenti in strumentazioni tecnologiche di ultima generazione (proprietà privata), ma piuttosto in relazioni radicate e stabili tra personale sanitario e territori di riferimento (lavoro e saperi vivi). 

La diffusa contrazione della spesa sanitaria pubblica è probabilmente ancor più evidente nel campo dei medicinali di ultima generazione, dove il dominio delle grandi aziende farmaceutiche, insieme a un lento ma continuo processo di disinvestimento dalle infrastrutture pubbliche di ricerca e sviluppo, ha portato a una riduzione della capacità di produzione di farmaci che sono principalmente utilizzati per problemi di salute generale o che sono visti come “non rivali” (cioè, il cui consumo da parte di una persona non influisce sulla capacità di consumo di altri). I primi vaccini Covid-19 sono stati quindi sviluppati da start-up di ricerca private appoggiate da fondi di capitali di rischio (venture capital). Inoltre, si prevede che il nuovo approccio ai vaccini a consegna rapida sostenuto da BioNTech e Moderna si basa sull'RNA risulterà essenziale per terapie personalizzate per il cancro e le malattie cardiache. Anche questo ramo della ricerca medica è dominato da società private e brevetti. È quindi probabile che i futuri medicinali di precisione rimarranno anch'essi di proprietà privata, un modello di ricerca e sviluppo che rischia di sottrarre sempre più risorse dai sistemi sanitari pubblici.

È importante sottolineare ancora una volta il ruolo giocato dalla proprietà privata in questo processo di produzione così essenziale. Queste aziende hanno ricevuto finanziamenti pubblici senza precedenti e beneficiato di ordini anticipati per i loro vaccini, ordini che sono anch’essi pubblici ed effettuati prima della finalizzazione dei vaccini stessi. I rischi finanziari legati allo sviluppo di questi nuovi rimedi sono stati quindi in larga parte socializzati e assorbiti dalla collettività. Tuttavia, le valutazioni di mercato, i profitti e i brevetti che ne derivano rimangono in mano a interessi privati.[29] Al netto di altre considerazioni sull’enorme impatto nocivo di tale approccio per l’avanzamento della ricerca scientifica, nell’immediato l’effetto di questa dipendenza dalla forma privata è una spiccata tendenza al monopolio che beneficia solo le aziende farmaceutiche e i loro azionisti. 

Mentre gli stati con più risorse si ritrovano a competere tra loro per accaparrarsi le forniture disponibili, riproducendo ancora una volta le note dinamiche geopolitiche che dividono il mondo in zone di interesse, periferie e centri, la parte meno ricca del mondo viene lasciata a sé stessa (a meno che i paesi con un forte orientamento alla sanità pubblica, come Cuba per esempio, producano i propri vaccini e li passino ai produttori di farmaci generici). Mentre i vaccini diventano disponibili solo lentamente e in modo iniquo in diverse parti del pianeta, virus come il Corona possono continuare a diffondersi e a evolversi in ceppi più resistenti, creando ulteriori rischi per la salute pubblica mondiale.  

Terre recintate e vite migranti usa e getta

Il terzo e ultimo processo di privatizzazione del futuro che vogliamo qui evidenziare in relazione alla cura è il colossale land grab in atto di territori “vergini” nel sud globale, una corsa smodata all’accaparramento di aree coltivabili o altrimenti sfruttabili a vario titolo (miniere, infrastrutture, etc.). Questa pratica rappresenta una drammatica incursione negli habitat della fauna selvatica, che è la causa soggiacente a quei balzi zoonotici che sono i conduttori di epidemie come la SARS-Cov-2.  Agritech e fintech lavorano insieme per creare nuove frontiere dell'estrazione. Avviene così che nei sistemi di produzione agricola globalizzata, logisticamente interconnessi, istituzioni finanziarie con sede a New York promuovono il furto di terreni di sussistenza collettiva e lo sgombero delle foreste nel sud-est asiatico o nell'Africa subsahariana. La conseguente distruzione di habitat ancestrali, la corsa globale verso terre produttive e l'espansione dell'agricoltura industriale stanno espellendo le popolazioni indigene e rurali dai propri luoghi di vita, forzandole verso le baraccopoli urbane, e da lì, in cerca di sostentamento di base, attraverso deserti e mari, fino ad arrivare ai confini dei paesi ricchi. Qui, alle frontiere con il “mondo minoritario”[30], li aspetta un regime che criminalizza la migrazione per meglio assorbire la forza lavoro illegale sfruttabile. Seguendo l’amara logica delle catene di cura globale,[31] i migranti privi di documenti sono esattamente i soggetti più necessari per lo svolgimento del lavoro stagionale a bassa retribuzione in settori come l'agricoltura o il lavoro domestico. La privatizzazione di terre in corso a livello globale produce quindi popolazioni usa e getta: persone che finiscono paradossalmente per lavorare nei sistemi di prestazioni di cura, assistenza domestica e altre mansioni definite “essenziali” (come il lavoro stagionale di raccolta) nei paesi ad alto reddito. 

Pirateria come cura: ovvero, contro i nuovi regimi di proprietà privata 

Ciò che accomuna i tre processi appena discussi – il moltiplicarsi di servizi mediati da piattaforme; la commercializzazione crescente dei luoghi, strumenti e saperi legate alla salute; e l’espropriazione di terreni comuni - è una mutazione accelerata di risorse, infrastrutture e sistemi sociali in asset, ovvero, di un particolare forma di proprietà privata in cui i profitti derivano dall'aumento del valore della proprietà stessa, piuttosto che dalla produzione. Ciò fa parte della più ampia tendenza verso la finanziarizzazione di tutte le transazioni economiche e fornisce la base che permette al capitale finanziario di esercitare un ​​controllo capillare sullo sviluppo futuro di una vasta gamma di beni e servizi, senza necessariamente impossessarsene direttamente. Dimensioni di vita essenziali come la salute, l'assistenza agli anziani, l'alloggio, l'istruzione e così via, vengono sempre più convertite in asset. Allo stesso tempo, altre funzioni oggi indispensabili come le pensioni, l'assicurazione sanitaria e il risparmio di molte persone comuni sono arrivate ​​a dipendere dal reddito generato da questi stessi processi di assetizzazione. Tale assetizzazione sta quindi progressivamente incastrando un numero sempre maggiore di persone in una tendenza di sviluppo sociale che creerà società ancora più segregate, espropriandoci dalla nostra stessa capacità di plasmare il futuro. 

Cogliere il nesso tra proprietà privata e messa a profitto del futuro è un nodo cruciale per capire il vuoto politico e la difficoltà a concretizzare politicamente una società improntata alla cura, ovvero, a pratiche che si occupino, tra le altre cose, della relazione tra diverse generazioni di esseri, umani e non. La risposta politica alla pandemia ha già radicalizzato ulteriormente la viscerale divisione del lavoro di riproduzione sociale – i soggetti che se ne fanno carico sono oggi ancora più svantaggiati. L'ampio dettaglio statistico del rapporto 2018 dell'ILO sul lavoro di cura [32] dipinge un quadro molto chiaro: la maggior parte del lavoro di cura, retribuito e non, è svolto da persone di classe bassa, in maggioranza donne, migranti e persone di colore. Eppure, mentre esistono rivendicazioni importanti organizzate intorno a questioni di genere, di status lavorativo e di “razza”, la condizione di carer (persona con dipendenti a carico e/o responsabile di mansioni di riproduzione sociale essenziali e continue) non ha ancora dispiegato tutta la sua potenzialità politica. Durante la pandemia, la maggior parte dei carers non ha avuto altra scelta che continuare a lavorare, in condizioni rese più difficili dai blocchi e senza avere accesso ad ulteriori risorse, mettendo a rischio la propria salute e la salute delle proprie comunità. Come la letteratura femminista nera e decoloniale sottolinea con forza, il lavoro di cura sotto il capitalismo è strutturato attorno a questa asimmetria: i soggetti che prestano lavoro di cura sono tra coloro che meno avranno accesso a cure adeguate[33]

L'esplosione della solidarietà dal basso durante il primo anno di pandemia era orientata a colmare le lacune create nel panorama istituzionale da un'insufficiente capacità sanitaria, dalla negligenza burocratica e da una deliberata esclusione sociale. Tale risposta della società civile è tuttavia situata e localizzata, mentre i meccanismi che guidano le logiche della cura capitalista sono strutturali e globali. L'assetizzazione crea meccanismi di auto-rafforzamento che limitano in maniera preoccupante le future possibilità di trasformazione istituzionale e impediscono a priori qualsiasi cambiamento di governance che sia capace di sottrarre i servizi essenziali da una logica di accumulazione di capitale. Tale processo è sostenuto anche dal cambiamento tecnologico, che sta normalizzando e invisibilizzando le condizioni dei lavoratori a bassa retribuzione, e dalla proliferazione di strumenti legali che rendono “legittimo” il loro sfruttamento. 

Nel nostro lavoro su Pirate Care, ci siamo concentrati su pratiche che non solo si auto-organizzano intorno alla cura in modi nuovi, ma lo fanno disobbedendo apertamente a leggi, ordini esecutivi e accordi istituzionali, ogni volta che questi ostacolano la libertà e la solidarietà. Le persone impegnate in queste pratiche spesso articolano le loro azioni disobbedienti come richieste politiche, contestando la normalizzazione dei regimi di esclusione. Questo è il motivo per cui li abbiamo chiamati "pirati". Quello che fanno spesso comporta dei rischi: vengono arrestati e perseguiti per salvare le persone dall'annegamento nel Mediterraneo; per lasciare taniche d’acqua ai migranti che attraversano il deserto; per aiutare donne ad abortire; per fornire riparo ai senzatetto; per scaricare articoli scientifici. 

La nostra ricerca è allo stesso tempo una mappatura e un appello. Ci è sembrato importante dare un nome al fil rouge che unisce pratiche diverse, che si preoccupano di far fronte a problemi sociali molto eterogenei, ma che lo fanno condividendo una comune etica dell’azione di cura come intervento non risolutivo, ma necessario, ostinato e disobbediente. La temporalità che occupano è quella del “nel frattempo”: mentre ci si organizza per trovare soluzioni politiche alle ingiustizie in atto, i pirati della cura strappano più vite possibili alla disperazione, in alcuni casi alla morte, a cui l’incuria del capitale le avrebbe consegnate. 

All'inizio della pandemia, gran parte dell'opinione pubblica si aspettava che i governi agissero razionalmente e prendessero decisioni in nome di un bene comune. Ben presto tuttavia, la questione fondamentale si è rivelata essere non tanto la misura in cui i singoli governi siano stati in grado di soddisfare questa aspettativa - per quanto importante fosse; piuttosto, sono le strutture sistemiche all'interno delle quali questi governi funzionano a determinare la nostra capacità di cura, intesa come lavoro vivo che si interfaccia quotidianamente con strumenti, saperi e tecnologie private. I governi agiscono in un ambiente che è già dipendente dal mercato e, come tale, prospera sulla scarsità e sull'esclusione. In queste condizioni, l'incapacità di cogliere la pandemia come un'opportunità per trasformare in meglio le politiche e i valori alla base della salute pubblica (così come altre aree di assistenza sociale) è stata del tutto prevedibile. Per questo tali condizioni devono essere poste al centro del nostro orizzonte politico: devono essere politicizzate affinché qualsiasi discorso sul futuro della cura possa trovare un senso che non si limiti a mobilitazioni emergenziali di solidarietà. Crediamo che l'immaginario della pirateria ci permetta di mettere in primo piano la necessità pressante di espandere la gamma delle risposte immaginabili alla crisi - e di un'azione coordinata che mette in discussione la normalizzazione della proprietà imperiale e i suoi infami regimi di lavoro.

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  • Footnotes

    [1] Per ulteriori informazioni sul progetto Pirate Care, si rimanda al sito https://pirate.care/.
    [2]Foucault, Michel. La cura di sé. Vol. 3. Feltrinelli Editore, 1985.
    [3] Camille Barbagallo, The Impossibility of the International Women’s Strike is Exactly Why It’s So Necessary, Novara Media, 6 marzo 2017.
    [4] Joan Tronto and Berenice Fisher, Fisher, Berenice, and Joan Tronto. “Toward a feminist theory of caring.” Circles of care: Work and identity in women’s lives (1990): 35-62.
    [5] de La Bellacasa, Maria Puig. Matters of care: Speculative ethics in more than human worlds. Vol. 41. University of Minnesota Press, 2017.
    [6] David Graeber, personal tweet.
    [7] The Care Collective, The Care Manifesto: The Politics of Interdependence (Verso Books, 2020).
    [8] http://entreparentesis.org/la-sociedad-los-cuidados/
    [9] Gonzalez, Horacio. “La Inmovilizacion”. Lobo Suelto, 25 marzo 2020.   http://lobosuelto.com/la-inmovilizacion-horacio-gonzalez/.
    [10] Colectivo Brujas y Diversas (2015). Juntas y diversas: Compartiendo propuestas: Mujeres migradas en Euskal Herria. http://mujeresdelmundobabel.org/files/2011/12/juntas-y-diversas-color.pdf
    [11] https://publicservices.international/resources/news/spain-nationalises-all-private-hospitals-uk-rents-hospital-beds?id=10645&lang=en ; https://www.thejournal.ie/private-hospitals-ireland-coronavirus-5056334-Mar2020/ 
    [12] Fraser, Nancy. “Contradictions of capital and care.” New left review 100.99 (2016): 117.
    [13] Per esempio: https://www.vaccinecommongood.org/
    [14] Marx, K.; and F. Engels (1976). Select Works. Vol. I. Moscow: Progress, p. 81.
    [15] Angus Konstam, The History of Pirates (Lyons Press, 1999).
    [16]  Gabriel Kuhn, Life Under the Jolly Roger: Reflections on Golden Age Piracy (PM Press, 2010), chap. 4. Mark C. Kehoe. “John Woodall's Medicine Chest Ingredients”, p. 1. The Pirate Surgeon’s Journal. Tools and Procedures.
    [17] Peter Linebaugh and Marcus Rediker, The Many-Headed Hydra: Sailors, Slaves, Commoners, and the Hidden History of the Revolutionary Atlantic (Verso, 2000), 160.
    [18] David Graeber, Les Pirates des Lumières ou la véritable histoire de Libertalia (Libertalia, 2019), e-book. Nostra traduzione.
    [19] Ian Baucom, Specters of the Atlantic: Finance Capital, Slavery, and the Philosophy of History (Durham, NC: Duke University Press, 2005); Roscoe, Philip. ‘How the Shadow of Slavery Still Hangs over Global Finance’. The Conversation, 21 agosto 2020. http://theconversation.com/how-the-shadow-of-slavery-still-hangs-over-global-finance-144826.
    [20] Amedeo Policante, ‘The Return of the Pirate: Post-Colonial Trajectories in the History of International Law’, Política Común 5 (2014).
    [21] 
    Amedeo Policante, The Pirate Myth: Genealogies of an Imperial Concept (Routledge, 2015).
    [22] Per un approfondimento, si rimanda al sito: https://pirate.care.
    [23] Annemarie Mol, et al. 2015. Care in practice: On tinkering in clinics, homes and farms, p.14.
    [24] Ursula Huws, ‘Logged Labour: A New Paradigm of Work Organisation?’ Work Organisation, Labour and Globalisation 10, no. 1 (2016): 7–26.
    [25] Ian Alan Paul, ‘The Corona Reboot’, March 2020, https://www.ianalanpaul.com/the-corona-reboot/.
    [26] Klein, N. (2020) ‘The Screen New Deal’, The Intercept. 8 maggio. https://theintercept.com/2020/05/08/andrew-cuomo-eric-schmidt-coronavirus-tech-shock-doctrine/
    [27] https://en.wikipedia.org/wiki/Flattening_the_curve
    [28] World Health Organization, New Perspectives on Global Health Spending for Universal Health Coverage, 2018. https://apps.who.int/iris/bitstream/handle/10665/259632/WHO-HIS-HGF-HFWorkingPaper-17.10-eng.pdf 
    [29] La stesura di questo testo è stata ultimate prima della decisione del Presidente statunitense Biden di supportare una temporanea sospensione dei brevetti in seno alla Organizzazione Mondiale della Sanità. Al momento di andare in stampa tale misura sembra essere confinata tuttavia al solo trattamento del Covid-19, pertanto l’argomentazione centrale che affrontiamo qui,  ovvero la connessione tra crisi della cura non solo come questione legata alla iniqua distribuzione del lavoro vivo ma anche ad un rafforzamento enorme negli ultimi decenni della proprietà privata, rimane sostanzialmente attuale.
    [30] Alessandra Mezzadri, ‘On the value of social reproduction Informal labour, the majority world and the need for inclusive theories and politics’, Radical Philosophy, 2.04, Spring 2019.
    [31] Hochschild, Arlie R. 2000. Global care chains and emotional surplus value. In On the edge. Living with global capitalism, Hrsg. Anthony Giddens und Will Hutton, 130–146. London: Jonathan Cape. Parreñas, Rhacel S. 2001. Servants of globalization. Women, migration and domestic work. Stanford: Stanford University Press.[32] Laura Addati et al., Care Work and Care Jobs for the Future of Decent Work (Geneva: ILO, 2018).
    [33] 
    Per approfondire: Evelyn Nakano Glenn, ‘From Servitude to Service Work: Historical Continuities in the Racial Division of Paid Reproductive Labor’, Signs: Journal of Women in Culture and Society 18, no. 1 (1992): 1–43; Tamara Beauboeuf-Lafontant, ‘You Have to Show Strength: An Exploration of Gender, Race, and Depression’, Gender & Society 21, no. 1 (2007): 28–51; Alessandra Mezzadri, ‘On the Value of Social Reproduction: Informal Labour, the Majority World and the Need for Inclusive Theories and Politics’, Radical Philosophy, no. 204 (2019): 33–41; Natalia Quiroga Diaz, ‘Economía Del Cuidado. Reflexiones Para Un Feminismo Decolonial’, Revista Feminista Casa de La Mujer 20, no. 2 (2011): 97–116; Françoise Vergès, Un féminisme décolonial (La fabrique éditions, 2019).

     

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